I Navicelli e l' "Ernesto Leoni"
I velieri da carico di modesto tonnellaggio e dall'armo abbastanza particolare, diffusi unicamente lungo le coste del Ponente ligure e della Toscana erano denominati 'Navicelli'.
L'appartenenza del navicello alla toponomastica della Toscana si ha già dalla seconda metà del XVI secolo, ovvero dalla creazione dell'idrovia che univa Pisa a Livorno voluta da Cosimo de'Medici, chiamata appunto "Canale dei navicelli". Il gran numero di esemplari costruiti lungo le sue coste suffragano d'altronde la matrice toscana di questi legni.
Il navicello si distingueva dalle altre imbarcazioni da piccolo cabotaggio coeve per la sua attrezzatura velica molto particolare. Armato a due alberi, presentava infatti un albero di trinchetto collocato quasi a prua e fortemente inclinato in avanti. Esso portava, inferita con canestrelli, una vela trapezoidale messa in tensione da una drizza incocciata su un bozzello sulla "testa di moro" dell'albero di maestra. In alto, sopra la strana vela trapezoidale, se ne issava un'altra, di forma triangolare, murata a prua sull'albero di trinchetto e a poppa quasi in testa all'alberetto per mezzo di due apposite drizze. Sullo stesso albero di trinchetto veniva armato un polaccone (fiocco)che era murato a prua sull'apposita asta di fiocco.
L'albero di maestra era leggermente spostato a proravia del centro barca e issava una vela a corno, ovvero una vela aurica senza boma e una controranda (freccia).
Per migliorare le prestazioni nelle andature portanti era possibile issare un fiocco grande armato lateralmente su un buttafuori (palo).
Lo scafo inizialmente era a poppa quadra, simile a quello del 'pinco ligure', ma con la prua senza sperone. Solo nella prima metà dell'Ottocento si adottò un nuovo tipo di scafo con poppa a cuneo, molto simile a quello della tartana, per via della necessità che la specializzazione nel trasporto dei marmi richiedeva. Così ci suggerisce anche Pietro Berti, appassionato storico di "cose di mare". Nella loro ultima evoluzione, per via della loro consolidata specializzazione nel trasporto del marmo, i navicelli erano lunghi fra i 30 e i 35 metri con portata superiore anche alle cento tonnellate.
Nel suo libro "Le vele del marmo", Romano Bavastro scrive che con vento favorevole queste imbarcazioni potevano viaggiare a pieno carico ad una velocità di 8 nodi.
L'equipaggio era composto da quattro, massimo cinque uomini, compreso il mozzo.
Il comandante risiedeva a poppa, in locali che avevano anche la funzione di sala nautica, di ufficio e di cambusa. I marinai nel quartiere di prora, dove trovavano sollievo in cuccette ricavate sopra il pozzo delle catene, in cui erano conservate anche le vele di rispetto. Il loro materasso era uno "strapuntino" riempito con foglie di granoturco. Misero il loro corredo, contenuto in un fazzoletto di ottanta centimetri di lato detto "fagotto": "un maglione di lana (e calzettoni se anziani), due o tre cambi di camicie, pantaloni, panciotto e fazzoletti".
A bordo il cibo era costituito da gallette, riso, stoccafisso, baccalà, ceci e salsicce cucinati su una cucina ricavata da una latta da 10 litri solitamente usata per contenere olio, con sopra applicato un fornello di ghisa da casa e alimentata a carbone.
Possiamo supporre che prima della specializzazione nel trasporto del marmo delle Alpi Apuane i navicelli abbiano percorso le normali rotte del piccolo cabotaggio nel Tirreno, ma con sicurezza possiamo dire che il trasporto dei marmi ha limitato le rotte dei navicelli lungo un asse che va da Roma alla Francia.
Dalla documentazione che abbiamo a disposizione è possibile rilevare la presenza di navicelli in molte località come l'isola de La Maddalena e in Sardegna (per caricare probabilmente vini e formaggi), Civitavecchia, Roma, Lerici, Sestri Levante, Portofino. La loro presenza era viva anche a Genova, Savona, Sanremo, Imperia, nel porto di Livorno e a Bocca di Magra, dove svernava il grosso della flotta.
Troviamo altri navicelli in Francia, a Marsiglia, a Mentone, a La Ciotat.
La storia di questa marineria non fu esente da lutti, e più di ogni altro si tramanda un fatto molto grave che colpì Bocca di Magra nel novembre del 1902: una forte ondata di piena colpì il porto di sverno della maggior parte dei navicelli e quarantacinque di essi furono trascinati in mare sotto gli occhi sbigottiti e impotenti degli spettatori. Di questi, diciassette navicelli naufragarono, altri furono danneggiati e altri ancora furono incendiati dai fulmini, e con loro perirono alcuni dei ragazzi che abitualmente erano a bordo, di guardia alle imbarcazioni.
Tristemente dobbiamo precisare che l'attività di questi bastimenti è definitivamente cessata, tranne qualche rara eccezione, negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale, durante la quale molte delle unità della flotta furono militarizzate e utilizzate come naviglio antisommergibile o affondate dal fuoco nemico.
Purtroppo oggi l'Ernesto Leoni (nella foto) sembra essere l'unico esemplare ancora navigante sopravvissuto. Le ultime notizie ce lo davano alcuni anni fa in Sudan, trasformato in barca da charter, in vendita. Speriamo che qualcuno abbia a cuore l'ultimo monumento di questa marineria.
I nostri più vivi ringraziamenti a Pietro Berti e a Lazzaro Ghio che hanno messo a nostra disposizione il loro prezioso materiale, risultato di anni di ricerche e a chi come loro sta cercando di salvare con il proprio impegno la cultura marinaresca del nostro paese.