Mastro d'ascia Giovanni Leonardo Barraco
Figlio di Rais di Tonnara, anziché seguire le orme di suo padre, all'età di 12 anni iniziò a lavorare per il maestro d'ascia Francesco Perrone. Congedatosi dalla Marina Militare, nel 1955 partì per la Libia dove costruì, per una tonnara in concessione alla famiglia dei Serraino, quattro rimorchi di tonnara e altrettante barche da pesca con la "prua a motonave". Ritornato a Trapani, continuò per lunghi anni il suo lavoro di maestro d'ascia dando vita ad oltre 60 barche, commissionate da privati per l'utilizzo della pesca sportiva e a diversi pescherecci di lunghezza superiore ai 15 mt.
Oggi settantacinquenne, Mastro Barraco non ha più il suo cantiere, ma continua a costruire modelli, soprattutto a Vela Latina, veri e propri gioielli di storia della carpenteria navale. Lo aiuta sua moglie, la signora Adriana Mannina, che cuce le piccole vele ancora gonfiate dal caldo scirocco d'Africa che batte alle porte della loro "casa laboratorio" dove Michele Giacalone lo ha incontrato e ha ascoltato il celere susseguirsi dei suoi ricordi di fronte ai quali Mastro Leonardo ancora si commuove perché essi, come il suo lavoro, sono ancora in grado di scrivere forti emozioni.
Così è la memoria del deserto libico dove per dissetarsi senza offendere i locali, Barraco bevve in una pozzanghera d'acqua dove si abbeveravano i cammelli; o quella del mare in tempesta affrontato per dovere più volte perfino coi "varcarizzi" (piccoli gozzi da pesca per dilettanti), quando il Rais lo costringeva a portare le funi nella tonnara... Racconta poi di quando, militare a Brindisi, di guardia al "Parco Torpedine", non ebbe esitazione a lasciare il fucile d'ordinanza, contravvenendo agli ordini, e a buttarsi in acqua per salvare un commilitone che stava annegando e di quando, invogliato da un commilitone sardo, Salvatore Diana, realizzò per un maestro d'ascia brindisino, che lavorava solo con modelli già stabiliti in scala, un gozzo da pesca, l'"Oreste Gigante", trasferendogli così gratuitamente tutte le sue preziose conoscenze di disegno progettuale, d'altronde per lui "Costruire una barca è come realizzare una scultura, disegnarla è vederla navigare. Vedere come la sua prua apre il mare vuol dire adeguare le linee di costruzione e correggerne i difetti".
Tutto il suo sapere, racchiuso nella sua mente e nell'esperienza appresa tra gli odori di segatura e di colla bruciata, costituisce non solo la sua vera arte, ma è parte del nostro patrimonio culturale. Molti sono andati da lui per apprendere proprio l'arte del disegno che lui, a differenza di altri mastri, conosceva alla perfezione. Sono arrivati da Siracusa e da Palermo, per carpire l'utilizzo del "mezzo garbo" moderno, di quello antico e della divisione delle ordinate con il "murriune". Mastro Nardo ogni volta ha preso un disegno nuovo, il curvilineo e il compasso e ha tracciato le linee di una nuova barca, come dovesse progettarla e costruirla ex novo.
Con grande enfasi racconta di quando, ancora ragazzo, notò che il suo maestro, nel tracciare una barca, aveva commesso un grossolano errore. Leonardo, per rispetto, non si permise lì per lì di correggerlo, ma quando vide che il disegno non era riuscito e che le linee di sezione non tornavano con le linee di forma, fu costretto a vincere la sua timidezza e a far notare al suo maestro l'errore. Da quel momento gli fu permesso di realizzare piccoli modellini, come quelli che per diletto costruisce ancor oggi, che gli consentirono di perfezionare l'arte del disegno. Imparò dai suoi maestri ad apporre la propria firma sulle barche che realizzava e come logo scelse "u stricaturi", un'asse di legno utilizzato dalle lavandaie per lavare e strizzare i panni. Le scanalature tipiche dello "stricaturi": mastro Nardo le applicava come firma sul dritto di poppa.
Per lui realizzare una barca era un avvicendarsi di azioni segnate da momenti importanti e augurali. All'inizio, prima di posizionare la chiglia, si metteva al dritto di prua un mazzo di fiori e un'immagine del proprio Santo protettore. Completato il fasciame, prima di mettere l'ultima tavola -"u rammagghiu"- che veniva tagliata e provata, si affiggevano i chiodi sulle costole senza piantarli e su di essi, ancora non battuti a fondo, venivano legati dei fiori offerti dal cantiere. Il rammagghiu veniva portato al proprietario, il quale, contento, offriva da bere a tutti, "a vippita". Quando tutto era finito e i pittori con l'ultima pennellata segnavano il nome della barca, il mastro d'ascia, prima ancora del sacerdote, la benediva "a nomine i'Dio", dando tre colpi d'ascia ad incrociare sul dritto di prua.
Il più recente dei ricordi di Mastro Nardo è legato al leudo "Felice Manin", che fu nel suo cantiere per rimessaggio: oltre alla tuga, alla coperta e ad altre riparazioni, ricorda di aver avvitato manualmente ben 3.000 viti di ottone e di rame!